Che stancùria!
Quella spossatezza
languida e avvolgente,
che ti senti il corpo
in fremente abbandono,
come una nostalgia
di sensi striscianti,
che ti senti la mente
di Seneca e De Sade,
tra laghi e fiumi,
torrenti di pensieri,
felicemente fissati
in un ghiacciaio
senza tempo.
Com’è tutto inutile
eppure meraviglioso.
Che stancùria!
Ti scurticasti tutta
abbulannu de' scaluna,
a curpa fu a me ca dissi:
Ti piaci? T’arrialu a luna!
E patapunfiti satasti
e tutta t’allanzasti, o bedda!
Ora ti curu, cu bendi e vasuzzi,
nenti chiù ti prumettu, nenti,
ca l’amuri nun su prumissi,
sunnannu l’impossibbili,
ma chiddu ca facemu
tutti li jorna ‘nzemula,
ju e tu, tu e ju, nui a nui.
Traduzione
Ti scorticasti tutta
volando dalle scale,
fu colpa mia, che dissi:
Ti piace? Ti regalo la luna!
E patapunfiti sei saltata
e ti sei sfracellata, o bella!
Ora ti curo, con bende e bacetti,
niente più ti prometto, niente,
che l’amore non è promesse,
sognando l’impossibile,
ma quel che facciamo
tutti i giorni insieme,
io e tu, tu e io, noi a noi.
Quando il vento scompiglia e fa volare le cose, non infastidirti, e pensa sia un amico che ti scuote. Sorprendente. Osserva il cappello che vola via saltando come una quaglia e te che saltelli dietro a lui e danzate la buffa giga dei giullari. Osserva gli spartiti disseminati sul pavimento, come si dispongono in ventagli di note diritte, capovolte e di traverso, così puoi leggere e suonare con inatteso sguardo, così senti che ogni cosa va guardata e letta in molti modi. Osserva il libro che si è sfogliato, hai perso il segno della tua lettura, ma con un colpo d’occhio vedi che s’è aperto su quella pagina, su quella frase che t’illumina la giornata. Osserva l’albero che si piega e sembra voglia accarezzarti, sembra dirti che la natura è innocente, che tutti siamo innocenti. Osserva chi ami, guarda quel ciuffo che s’è mosso, scompigliato, tra gli occhi, il naso, le labbra e vibra di bellezza a dispetto di tutto, e tu sorridi, e sorridete insieme, e correte ridendo come bambini, aprendo le braccia come ali. Quando il vento scompiglia, ci regala l’inatteso, niente è irreparabile, più lieve è lo sguardo più leggero il cuore, e in un attimo, anche se non lo capisci, puoi sentire l’abbraccio della vita, il senso dell’esistere, senza parole, in un fiato di vento che ti rivela tutto.
Dal 15 al 30 Aprile, nella casetta dei poeti ideata da Giovanna Iorio a Hertford e Londra, Uk, foto, registrazioni e installazioni artistiche, idealmente abitata da me e dalle mie esperienze, poetiche, umane, teatrali.
Mi diedero una pistola,
la presi e ad occhi chiusi
sparai.
Mi diedero un fucile,
lo presi e ad occhi chiusi
sparai.
Mi diedero una granata,
la presi e ad occhi chiusi
la lanciai.
Attorno a me decine di commilitoni sparavano a ripetizione, esaltandosi ferocemente come bambini al luna park della morte. Decine di bossoli volavano tra noi, uno, bollente, mi bruciò l’avambraccio. Era soltanto un bossolo sputato via dal percussore, il proiettile aveva già colpito la sagoma. Era soltanto un’esercitazione. Ci addestravano a uccidere. Io vedevo le sagome diventare persone, le vedevo cadere, urlare, sanguinare, morire. Pensavo: “Anche ad occhi chiusi, quanti ne avrò colpiti?”
Così aprii gli occhi e vidi la strage, vidi la morte, l’insensata brutalità della guerra.
Per molte notti non ho dormito, per troppi giorni ho ricordato, per troppi giorni ho dimenticato.
Conosceva tutte le parole del mondo
e persino tutti i nomi possibili di Dio,
tutti i numeri e le loro infinite combinazioni,
i movimenti degli astri visibili e invisibili,
le note d’ogni suono e tutti gli armonici
risuonavano in lui in perfetti intrecci,
d’ogni volto leggeva l’anima nascosta,
d’ogni amore e d’ogni dolore era arpa,
osservava tutto con grande stupore,
e non capiva, non capiva, da millenni
perché tutto veniva annientato sempre
dall’infinita ferocia dell’uomo contro l’uomo.
Camminava tra corpi straziati, nelle città
e nelle campagne bruciate, accarezzava
i bambini tranciati e i vecchi sconvolti,
le donne lacerate e gli uomini crivellati,
gli animali ignari squarciati e divorati,
sollevava lo sguardo verso il cielo scuro
e non capiva, no, non capiva ancora,
mentre l’aria si tingeva di rosso e mille
esplosioni d’intorno gridavano il suo:
“Perché?” Nessuno rispose e dopo fu
soltanto un silenzio che bruciava,
e l’angelo restava là, nonostante tutto.
Vorrei misurare il tempo
in vivi fogli di un libro ,
non in minuti, ore, giorni,
anni, scanditi verso il nulla.
Preferisco sentire il fruscio
delle pagine d’ogni vita,
incipit quasi sempre felice,
i primi capitoli a colori
disegnati dall’innocenza,
poi i confusi e impetuosi
capitoli della giovinezza,
rosso fuoco, indaco triste,
parole incendiarie, lampi,
amori farfalla, testardaggine,
poi verso il respiro ampio
della maturità, lo sguardo
e le parole distese in campi
ondulati di pensieri aperti,
l’amore avvolgente, unico,
capitoli che si aprono a tutti,
e diventano preziosi oltre noi.
Fino alle pagine finali,
brusche o serene, sempre
sorprendenti, e l’ultima
parola, l’ultimo respiro,
è l’ultima pagina girata,
è il nuovo libro che altri
continueranno a scrivere
anche con te, così mi piace,
così vorrei sentirmi parte
di una biblioteca che non chiude mai.
Tante volte vorrei rivedervi
e all’improvviso provo
a telefonarvi. Resto sospeso
tra la mano e l’occhio,
non so più il numero,
non c’è più voce,
i volti sono nebbia,
qualcosa che spinge
da dentro con disperazione
avvolge, sospende il respiro.
Soltanto di notte riesco
sognandovi
a rivedervi vivi
perfettamente vivi.
Vi vedo, vi annuso,
vi abbraccio, vi tocco,
e le vostre voci risorgono
con timbri, colori, accenti
familiari, mai morti,
mai veramente cancellati.
Mi sveglio come se tornassi
da una festa, stanco, contento,
un po’ ubriaco per troppo sentire.
E poi per giorni mi accompagnate
vivi com’eravate, nella vita e nel sogno,
siete tanti ormai, mi affollate il cuore.
Così capisco che da sveglio sento
il passato che siete stati, nostalgia,
ma solo nel sonno tutto è presente,
e sonno e veglia mi portano avanti,
non so dove, né come o perché,
consola un poco non esser soli mai.
L’anima è ricamata di vuoti,
bisogna staccarsi un poco
per vedere oltre questa vita
l’arabesco misterioso
che ci avvolge.
Arriva sempre il momento in cui bisogna uccidere Babbo Natale. Non esiste, si dice, e zac – morto!
I bambini crescono e si deve farlo, sennò non crescono bene, insomma non è che si può rischiare di avere un figlio che a trent’anni crede ancora che un panciuto signore vestito di rosso voli fino a casa sua per portargli un regalo di Natale! Quindi sbrigativamente o con molto tatto si deve ammazzarlo.
Io non ce l’ho fatta. Mio figlio poco prima di Natale scriveva la sua letterina e alla vigilia stava in trepidante attesa, un po’ preoccupato perché non avevamo il camino dal quale Babbo Natale sarebbe dovuto scendere. Vedrai che li lascerà dietro la porta di casa, gli dissi la prima volta. E come facciamo a sapere che li ha lasciati? Mi chiese lui. Bussa e scappa via. Risposi. L’importante è non sbirciare, bisogna aver pazienza e aspettare. A che ora arriva? Intorno a mezzanotte.
Mia moglie preparava il pacchetto (io sono negato e faccio pacchetti che sembrano devastati dagli elefanti) e lo nascondeva. La sera di Natale mettevo il regalo fuori dalla porta e a mezzanotte, di nascosto, davo dei gran colpi e facevo il vocione da cartone animato. Poi riprendevo la mia voce e chiamavo mio figlio: – È venuto! Ha bussato! Vieni, apriamo la porta, vediamo. Lui era elettrizzato ma esitava ancora qualche istante perché voleva dargli il tempo di andarsene senza essere visto, per non offenderlo. Apriva la porta, prima col mio aiuto, poi da solo e la magia era là, concreta e straordinaria, avvolta nella carta regalo luccicante! Il vero regalo però era quell’attesa, il mistero, la speranza e l’illusione che si sarebbero compiute. Io vedevo quel bambino completamente e innocentemente ammaliato da questa creatura immaginaria che per lui era fantastica e reale insieme, e trepidavo con lui, pur sapendo che ero io a imbastire tutta quella commediola natalizia, alla fine mi sentivo elettrizzato come se fossi tornato bambino anche io.
Ma gli anni volano e mio figlio era ormai quasi un ragazzino che credeva ancora a Babbo Natale. Qualcuno dei suoi compagni di scuola aveva detto: – Non esiste! Ancora ci credi?
Ma lui gli aveva risposto per le rime, dicendogli che esisteva, che viveva vicino al Polo Nord e aveva un indirizzo al quale si poteva scrivere e su Internet c’erano anche le foto. Il che era vero. Vinse il round però gli restò il dubbio e tornò a casa col broncio. Cos’hai? Gli abbiamo chiesto.
Cosa è successo? Lui, serissimo, arrabbiato ma sull’orlo del pianto: – Dicono che Babbo Natale non esiste. È vero, papà? È vero, mamma?
Quello sarebbe stato il momento giusto, bastava dire: – Sì.
Però, non ce l’ho fatta. Avrei tradito quel bambino, avrei ucciso tutta la meraviglia e la magia, tutta la fiducia incondizionata che nutriva per me e per sua madre, e avrei ammazzato quel povero pancione immaginario che per tanti anni c’aveva fatto visita, rendendolo, rendendoci felici. Anche se immaginario, non volevo quel cadavere enorme stramazzato dietro la porta, schiantato sul piccolo cuore di mio figlio.
Quindi ho risposto: – No, non è vero, esiste. Se tu ci credi esiste, come tutte le magie, il tuo compagno non ci crede e per lui non esiste, tu ci credi e per te esiste.
Stavo per citare la famosa battuta di Amleto a Orazio: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia.” ma mi sono fermato in tempo, perché ho realizzato che mi ero cacciato in un bel pasticcio. Adesso come avrei fatto a risolverlo?
Il bambino di fronte a me aveva ritrovato il suo sorriso e per adesso andava bene, ero felice di averlo reso felice.
Sono passati, credo, ancora due anni ed è arrivato il momento, ineludibile. Babbo Natale andava eliminato. Ma come?
Ci odierà – dicevamo tra noi, io e mia moglie. Bisogna farlo, è troppo grande. Sì, però.
A trent’anni andrà dall’analista. Perché gli abbiamo ammazzato Babbo Natale. O perché ancora ci crederà se adesso non gli diciamo che non esiste.
Lui, intanto, aveva già scritto quella che sarebbe stata la sua ultima letterina di Natale.
È sempre stato un bravo bambino, quindi il regalo già comprato e impacchettato stava nascosto in un angolo recondito dell’armadio. E Babbo Natale sarebbe arrivato. Però poi doveva sparire per sempre…
Allora ho avuto l’illuminazione. Non avrei ucciso Babbo Natale, non ce n’era bisogno. Dovevo solo ordire un rito di passaggio, altrettanto magico, verso la realtà, senza uccidere l’illusione ma trasformandola.
Di nascosto ho tirato fuori la letterina che aveva scritto e che da qualche anno imbustava lui stesso e scriveva l’indirizzo di non so più quale luogo artico o scandinavo e che fingevo d’imbucare nella cassetta della posta.
Sono andato a cercare il sito di Babbo Natale, ho scaricato loghi, bolli e timbri vari. E su carta intestata della casa nordica del più grande amico di tutti i bambini nel mondo, ho scritto una lettera di risposta a mio figlio.
Era un affettuoso commiato, il grande vecchio gli diceva che era stato felice di rallegrare ogni Natale, portandogli un regalo che meritava, si complimentava con lui perché era stato un bravo bambino che aveva reso orgogliosi i suoi genitori e anche lui ne era compiaciuto. Ma gli diceva anche che adesso era cresciuto e che quello era l’ultimo Natale in cui sarebbe venuto a trovarlo. Negli anni a venire avrebbe festeggiato il Natale e scambiato i regali con mamma e papà, come fanno i ragazzi grandi. Era necessario, anche perché se avesse dovuto continuare a far visita ai grandi non ce l’avrebbe fatta, troppi regali, troppi viaggi, e sarebbe andata a scapito dei nuovi bambini che sempre arrivano al mondo. Diceva tante altre cose, non le ricordo tutte, ci misi un bel po’ a scriverla, ma alla fine era proprio una bella lettera affettuosa, un commiato deciso, ma con tenerezza, un invito a crescere e continuare a far bene.
La lettera arrivò per magia, mio figlio la aprì e la lesse. Un’ombra di tristezza gli passò sul volto. Controllò la busta, il francobollo, l’affrancatura. Babbo Natale gli aveva scritto. Ci guardò, aveva gli occhi lucidi, un’espressione seria, sospirò, sospirammo e finalmente sorrise. Fu un Natale bellissimo.
Non ne abbiamo più parlato. Sono passati molti anni, tra un anno e mezzo sarà maggiorenne, ed è un giovane uomo con i piedi posati per terra e la testa un po’ tra le nuvole. A volte è molto serio, a volte è di una leggerezza straordinaria, a volte ha dei momenti di leggerezza quasi magica o momenti di tenerezza improvvisi. Come quando mi guarda come se fossi Babbo Natale o gioca e scherza con sua madre come se fossero due elfi. Non solo a Natale.
Mi guarderai così
con occhi di nittalope
come uccello notturno
come felino attento
nel buio della mia notte.
Sentirò quello sguardo
come un'invasione,
una carezza che
devasta i sensi,
niente e nessuno
potrà salvarmi.
Sentirò quest’oscurità illuminarmi.
Attraverserai il mare camminando
sul fondo soffice d’alghe e anemoni,
le tue dita fioriranno di coralli vivi,
la tua pelle brillerà di sale e sudore,
gli occhi saranno acuti di murene,
la bocca schiusa ricordo di una rosa,
un passo dopo l’altro, guizzando
gambe e piedi sorprendenti, svelti,
fino a risalire le montagne di roccia,
sugli altopiani di sabbia smemorata,
e tutto riemergendo si scioglierà,
mille frammenti d’ogni tua parte,
d’ogni pensiero, pena, sentimento,
esploderanno, ma silenziosamente,
si udrà soltanto un crepitio di luci,
sarà l’attimo perfetto, il giusto inizio.
Cammino sulla riva del lago,
due gatti saltano giocando,
lei mi da la mano, silenziosa,
il vento si riposa per un attimo,
e camminiamo sull’acqua scura,
non è un miracolo, soltanto noi.
Poi il vento ci riporta a casa,
e sono passati infiniti attimi,
il bambino ha corso e cantato,
il ragazzo ride e s’innamora,
gli specchi muti osservano curiosi,
passano arcangeli come arcobaleni.
Vorrei parlare in greco antico,
vorrei scrivere in mandarino,
vorrei di tutte le parole perdute
saper soffiare la forma e la vita.
Cammino sulla riva del lago,
due gatti saltano giocando,
lei mi da la mano, silenziosa,
il vento si riposa per un attimo,
e camminiamo sull’acqua scura,
non è un miracolo, soltanto noi.
Migliaia di notti passate a sognare,
resero il bambino così tanto esperto
di voli, cadute verticali e circolari
precipizi, albe di stupori e meraviglie,
tramonti tempestosi come oceani,
che la vita fu quasi un’intermezzo,
a volte insostenibile, a volte dolce,
un diurno tributo da restituire al corpo.
Così, vecchio, nell’ultimo addormentarsi,
fu felice di non essere più interrotto,
attraversò leggerissimo uno specchio,
sparì il riflesso del corpo, e fu tutto.
A volte, nel silenzio, sembra di sentire,
piccole serie di note gioiose, chimere
che invitano chi ascolta a sorridere.
Non c’è che il tempo a dimostrare
d’ogni sogno la fine, d’ogni vita
il rimpianto. Figure sconosciute
attraversano gli specchi opachi,
un raggio di sole brucia la pelle,
un bambino impaurito piange.
Non sai, né hai saputo, né saprai
consolarlo, guarirlo, liberarlo,
per tutta la vita, per tutta la vita,
un’attesa e la foga ribelle, vane,
non c’è salvezza fuori dal tempo,
persino la musica è illusione
scandita dai silenzi, murmure
presagio, di quelle case vuote
che diventiamo, urlanti echi
di fragili destini, evanescenti.
Danziamo tutti così, in dissolvenza.
Ve li immaginate quelli che da lontane galassie
osservano quel puntino trapuntato d’azzurro,
che a noi sembra ed è tutto il nostro mondo,
e si chiedono le stesse cose che ci chiediamo noi,
e restano là a sentirsi piccoli e distanti da tutto,
soli nel brivido dell’insignificanza, impauriti
dal peso della solitudine o la paura dell’infinito?
Intanto precipitano stelle e mondi estinti come fossero vivi.
Quei volti ormai perduti
che tornano in miraggi,
le voci ormai dissolte
che rompono il silenzio,
e quei profumi, di talco,
di creme, di colonie, aerei,
sublimi e lievi di fremiti
che spingono all’abbraccio,
così mi volto, cerco, ammiro
quanto è straordinaria
la vita oltre l’invisibile.
Tutto è corallo d’oceani della mente.
Si scrivevano lettere d’amore,
resoconti del desiderio, promesse
e cento modi per dire “mi manchi”,
pagine su pagine frusciavano
sotto le dita e un tremito saliva,
dalla carta alla gola, ingenua
la bocca baciava il francobollo,
e sulla busta il nome e la distanza.
La buca delle lettere era un’amica
traboccante di comprensione
ma con un tocco di cinismo
per noi che nell’attesa di risposta
bruciavamo per giorni disillusi.
Fu straordinario amarsi anche così.
Ho sepolto tutte le lettere nel petto.
Di ogni amore resta il profumo
delle parole scritte, delle attese,
che poi il tempo ci portò a tradire
con innocenza e crudeltà e noi
nella parte più pura del cuore
conserviamo le vite che sognammo.
Osservare tutti questi volti, sopra vestimenti lussuosi e ricchissimi. Ma i volti nudi svelano tormenti, ansie, ferite della vita, gioie, sorprese, speranze, disincanto, disprezzo, alterigia o umiltà. Sono gli stessi volti che posso incontrare per la strada o in metropolitana.
Mi parlano da tempi lontani, epoche di glorie dissolte, con nient’altro che la loro umanità, celata dal costume, svelata dagli occhi, dalle rughe, dai sorrisi o dalla stanca fissità della loro secolare noia.
Sono seduto davanti all’uomo barbuto di Tintoretto, accanto a me l’ombra di Thomas Bernhard.
Lo sguardo dell’uomo nel ritratto è un po’ malinconico ma pieno di comprensione del mondo fuori di lui, una distaccata condiscendenza verso chi lo osserva. La mano che s’appoggia al bavero di pelliccia sembra pronta ad un movimento repentino del braccio, fuori dal quadro. Intorno a lui il buio. La luce che gli illumina il volto viene dal nostro tempo, fu nel suo, sarà nel prossimo, inquieta, ma anche un poco consola.
§
Schloss Belvedere
Cosa si può pensare di fronte alla bellezza di capolavori immortali?
Cosa provo davanti alla signora col ventaglio di Klimt?
Commozione, certo, commozione.
E uno stupore particolarissimo che emoziona per una segreta forza di riconoscimento e allo stesso tempo di nostalgia.
§
Prater
La Vienna del divertimento popolare al Prater è come ogni fiera di paese, più in grande, ma anche più rarefatta, con una allure di distacco quasi decadente e qualche tocco di nostalgia asburgica molto kitsch.
Le piccole donne arabe velate di nero, coi chador stretti al collo, basse, paffute, sorridenti, sembrano contente come se fossero in gita alla Fabbrica del Cioccolato e da un momento all’altro s’aspettassero di vedere Gene Wilder o Johnny Deep.
Un vecchio austriaco che somiglia moltissimo a Von Karajan, seduto al Caffè, leva spesso gli occhi al cielo, sembra quasi preoccupato che arrivi un’incursione aerea, in realtà spia il movimento della Grande Ruota che gira proprio sopra di lui.
I bambini affollano i giochi, gridano, stralunano, mi sembrano fuggiti da un film di Bergman per scoprire la banalità del divertimento.
Vedo da lontano un minareto che solleva a cinquanta mentri una giostra che gira follemente, una gru che fa ruotare un canestro pieno di gente che sballottola, una gigantesca fionda che sbatacchia i volontari paganti ed altri strumenti di tortura masochistica. La gente si diverte facendosi trattare male, nell’illusione di sfidare un limite. Tutti sicuri delle loro cinture di salvataggio, urlanti per la vicinanza ad una possibile morte, che li eccita. Pagano per farla franca. Si divertono così.
Io bevo un tazzone di caffè che, tutto sommato, non è male.
§
Albertina Museum
Il segno della pennellate di Modigliani ha una forza violenta ma allo stesso tempo dominata. È come se dall’eccesso d’emozione dell’artista scaturisse una forza pura che viene plasmata, quasi placata, per aggrapparsi alla tela, in un’armonia instabile eppure perfetta, una stasi illusoria che assalta lo sguardo dello spettatore.
§
Burgtheater
Il cartellone della stagione del Burgtheater è strepitoso. Mi allontano velocemente, per non piangere di commozione e invidia.
Tra il sonno e la veglia,
in un solo istante,
sospesi tra due mondi,
scorgiamo un oblio
sterminato.
Le mani s’aggrappano,
la mente oscilla
tra precipizio e volo,
tutto sarebbe possibile
ma non sappiamo come.
In un solo istante
capiamo e dimentichiamo
tutto, ed è impossibile.
Dentro l’armadio chiuso,
Tiresia, che lo sa, sorride.
Fuori dalla finestra,
Apollo frusta la luce,
la vita riprende, schiaffo,
depistaggio, sollievo e pena.
In un solo istante
inafferrabile.
Nelle gallerie abbandonate
della metropolitana di Roma,
ho incontrato un vecchio,
elegantissimo di stracci,
balenava in aria le braccia,
mormorando versi antichi,
l’ho ascoltato incantato,
finché le Erinni sbucando
fuori dal buio, con ali nere
e becchi di metallo, in volo,
l’hanno ghermito e s’è dissolto.
Nell’ultimo barlume,
m’è sembrato di vedere,
gli occhi chiari del vecchio
e un sorriso da lungo atteso.
Da lontano il fruscio e il vento
d’un treno che strisciava svelto
sotto la città eterna in disincanto.
Nel silenzio che è seguito
ho sussurrato parole leggere,
che nessuno ha ascoltato,
ma domani, qualcuno, ignaro,
all’iride dell’alba, svegliandosi,
ripeterà come un regalo inatteso.
Ho visto i sogni della giovinezza trasformarsi nei mostri della realtà, ho visto le paure trasformarsi in forza involontaria e ho visto strade estendersi all’infinito, mura altissime ergersi su pianure.
Ho visto i Moloch morire e rinascere peggiori.
Ho visto gli amici farsi lupi o volpi, ho visto persone lontane farsi amici e restare veri, ma pochi, molto pochi.
Ho visto paesi bellissimi, parlato con persone di cui non capivo la lingua, abbracciato il loro dolore, la loro gioia e abbiamo cantato vite immaginarie, disegnato quadri bellissimi e colorati, mandala di sabbia finissima che è volata via quando vi abbiamo soffiato.
Ho visto amori che sembravano eterni dissolversi come Atlantide, sommersi dallo scorrere del tempo, dall’incertezza della memoria ormai lontana.
Ho visto e amato corpi, anime, profumi, odori, capelli, labbra, occhi, fiati, che racchiudevano tutto il mistero di infiniti universi, e mi sono perso nell’assenza di gravità.
Ho visto i grandi e famosi, da vicino, molto da vicino, quasi tutti nani dall’ego elefantiaco, meschini e affannati a schiacciare tutti quelli intorno a loro, per apparire di splendida inconsistenza.
Ho visto uomini e donne, umili, generosi, schivi, ergersi giganteschi mentre si abbassavano ad abbracciare il prossimo, mentre creavano straordinarie cose che spostavano il mondo verso l’inatteso, arricchendolo: erano i veri grandi, ma non ci tenevano a dirlo, né a sentirselo dire.
Ho visto giovani incerti e spauriti, strafottenti e altrettanto spauriti, crescere e volare.
Ho visto morti insopportabili e nascite meravigliose.
Ho visto il corpo cedere e risorgere.
Ho visto l’anima fare gorgo e sprofondare, ho visto l’anima erompere e inondare.
Ho visto Dio nella zampa di un cane e in una pietra e in un bicchiere d’acqua.
Ho visto il diavolo, era un critico, ora è morto.
Ho visto e vedo angeli ogni giorno.
Ho visto ridere i bambini e ridendo con loro sono rinato.
Ho visto la vita nascere dalla mia vita e crescere potentemente, Genesi, Esodo e Qoelet di me stesso.
Ho visto negli occhi della mia donna l’orgoglio di me stesso, la gioia e la disperazione, l’ostinata verità dell’amarsi, l’ininterrotto scintillio di ogni attimo, nella veglia e nel sonno, nell’ordinario e nello straordinario di ogni passo insieme.
Ho visto tutto questo e tante, tante, tante, troppe altre cose. Il tempo che mi resta non sarà altrettanto, ma vedrò ancora e ancora e ancora. E tutto questo sarà vivere come una montagna che la pioggia non riesce a dissolvere, le nuvole e la tempesta non cancellano. E quando il sole ritorna a splendere ricorda a chi la vede, l’immensità, l’azzardo, il cristallo dell’esistere, dal basso, verso l’alto, oltre la fine.
Ho vissuto su Marte per molti anni, potete credermi, ci sono stato. Non è affatto invivibile. Certo, non è che ci siano gli ometti verdi o gialli come nei fumetti. Certo, non è adatto alla vita umana. Ma questa presunzione tutta terrestre che la vita sia soltanto come la intendete voi è proprio stupida.
Non è che se una cosa sembra vuota lo è veramente, questo dovreste capirlo anche se non avete studiato fisica e metafisica e filosofia e persino gastronomia. Comunque, per farla breve e renderla chiara per tutti, su Marte la vita c’è, solo che è un’altra vita. Io c’ho vissuto e quindi lo so. Si vive là in un altro modo, del tutto differente. Su Marte si vive tutti come Idee, pure forme di pensiero, arzigogoli onirici, vapori felicissimi di pura astrazione. La densità abitativa è elevatissima, nei punti più affollati s’arriva anche a dieci miliardi di Idee per metro quadrato. Ma questo è un calcolo da terrestri, perché in realtà, non occupando spazio si sta sempre larghi senza impicciarsi l’un l’altro. Il bello è anche che le Idee si… come dire?… si mischiano, si fondono, s’accoppiano, s’ammucchiano e figliano continuamente, una goduria infinita.
La vita delle Idee, però, non è eterna. Arriva un momento in cui, per ragioni che non sto qui a spiegarvi visto che non capite niente di fisica quantistica, figuriamoci di fisica quantistica delle Idee marziane, arriva un momento nel quale, per un atto di cosmica generosità, un’Idea, da Marte, viene risucchiata in un tunnel spazio temporale, tipo un buco nero però blu, e s’impianta sulla Terra in un futuro umano che nasce marziano senza saperlo. Io sono nato così. E anche voi. Nessuno sa perché. Nemmeno io me lo ricordo.
Quando il lombrico uscì dalla terra, non seppe che fare e non si rese nemmeno conto d’essere spuntato in superficie. Ebbe soltanto una sorta di fremito sgomento, quando non sentì più la terra sopra di lui. Si sentì perduto e si dimenò, inarcandosi in aria, ripetutamente, senza ragione. Intorno a lui c’era il vuoto, il nulla, niente da masticare, niente da defecare. Pensò che qualcuno gli avesse rubato tutto. Si dimenò ancora. In una lingua incomprensibile urlò tutta la sua rabbia e infine, frustrato, si fermò. Rimase immobile, esausto, e dopo un po’ riuscì a pensare che sarebbe stato meglio rificcarsi nel terreno e scavare verso il basso, mangiando e cagando terra. Purtroppo in tutto quel suo agitarsi s’era spostato a piccoli salti su una larga pietra piatta, così quando tentò la ritirata si ritrovò bloccato e sbattè inutilmente il muso. Cosa poteva fare? Sotto di sé c’era un ostacolo duro e impenetrabile, sopra di sé un vuoto sconcertante e inaccessibile. Inoltre, come tutti i lombrichi, era cieco, quindi l’unica cosa che poteva fare era pensare. Ma essendo privo di cervello, gli riusciva molto difficile, non del tutto impossibile, ma decisamente arduo. Secondo la teoria di Lamartine-Chassé il moltiplicarsi delle sinapsi neuroniche cerebrali è inversamente proporzionale alla confusione entropica del pensiero, dunque un livellamento al minimo delle sinapsi produce chiarezza di pensiero, limpidezza cerebrale. Dunque, il lombrico, nella sua vacuità cerebrale, era la perfetta dimostrazione della suddetta teoria. Dal pulpito della sua lastra di pietra edificò l’opera assoluta che avrebbe rivoluzionato il mondo. Smettendo di agitarsi, si rilassò e distendendo ogni sua fibra cominciò ad organizzare un sistema teorico che rendesse merito e ragione a quel suo stato di costrizione, strutturando ed elevando tutta l’insipienza che l’aveva causato in una straordinaria opera di salvezza ed esaltazione. Dall’alto del suo piedistallo di pietra che il caso gli aveva messo sotto il blando corpo, vibrò e compiendo un miracolo finora impensabile, parlò a tutti i lombrichi ancora beatamente sopiti nella terra.
“Da questo pulpito che gli Dei della Madre Terra hanno voluto benignamente che io vi parlassi, amici, fratelli e sorelle, popolo mio di lombrichi, io sarò il vostro capitano, la vostra guida, per voi sacrificherò tutta la mia esistenza, per la vostra felicità, il vostro benessere, la vostra protezione! Mai più saremo invasi e uccisi da animali stranieri, barbari rapaci che attentano alla nostra sicurezza, tentando di distruggerci con subdoli raggiri e violenza senza pudore. Dalla terra che mastichiamo risorgeremo nuovi, dalla terra, la nostra terra, ergeremo il nostro baluardo di difesa. Popolo lombrichiano, ti esorto a masticare e defecare indefessamente, per innalzare il Grande Muro Escrementizio che ci separerà dai selvaggi invasori e proteggerà la nostra stirpe! Mai più soffriremo le prevaricazioni di chi è diverso da noi e pretende di occupare il nostro posto nella nostra patria benedetta. Alto risuonerà nei secoli a venire l’urlo di gioia e il monito nostro: – Prima i Lombrichi! Il resto che si fotta!
Mentre il lombrico proferiva questo breve ma incisivo discorso, cento e mille suoi simili sbucarono dal suolo, mangiando e defecando terra; si esaltarono, inneggiarono al loro nuovo capo dimenandosi con elettrica foga e ben presto, grazie all’alacre e indefesso lavoro dei loro orifizi, ersero una grande muraglia di terra argillosa che risplese al sole con orgoglio. Strisciarono orgogliosamente, esultando per la loro grande opera che circondava la pietra del grande capitano lombrico.
Ammassati nel loro spazio ristretto, cominciarono a scavare, mangiare e defecare all’unisono, esaltati e solerti, produssero un’enorme quantità di escrementi; ma la terra, esausta da tanto vermoso lavorio, si seccò e tutte quelle insulse creature, subirono la più grande carestia che la storia dei lombrichi ricordi. Fu a quel punto che il capitano lombrico, chiese ed ottenne per sé i pieni poteri, instaurando la prima dittatura democratica vermosa. Dal suo podio di pietra accusò la terra di congiurare contro la nobile stirpe dei lombrichi e di voler sabotare la millenaria tradizione di mangiarla e defecarla continuamente, come dalle origini del tempo era sempre avvenuto. Gridò la sua rabbia e dichiarò guerra. Nessuno aveva idea di cosa fosse. Il lombrico comandante disse loro che avrebbero fatto qualcosa che nessun lombrico aveva mai fatto. Si sarebbero emancipati dalla schiavitù della terra, avrebbero smesso di nutrirsene, si sarebbero nutriti da soli. Così ogni lombrico prese a divorare sé stesso cominciando a masticarsi dall’estremità della bocca all’orifizio dell’ano. Morirono tutti, ridotti in palline che si putrefecero al sole e rifertilizzarono la terra. Il Grande Lombrico, esultò, dichiarando vinta la guerra, poiché la terra si era arresa, grazie al sacrificio del suo popolo ed era tornata ubertosa e nutriente. Ma a parte lui, non c’era più nessuno da nutrire. Piovve e il grande cerchio di protezione si dissolse. Quando tornò il sole, una gallina di passaggio vide il lombrico sulla pietra e con uno scatto rapido del collo, lo infilzò col becco e lo ingoiò.
I lombrichi dei campi confinanti, non seppero mai cosa fosse successo, ma scavando, mangiando e defecando, arrivarono fino al terreno concimato dagli scomparsi lombrichi isolazionisti, era ottimo e se ne nutrirono a lungo, ingrassando oltre misura e nutrendo a loro volta le fortunate galline del pollaio vicino.
Nessuno ricorda più questa storia, nessuna memoria resta di tanta insensatezza, ma da allora, istintivamente i lombrichi rifuggono le pietre e chi vi sale sopra. Preferiscono stare in gruppo, scambiandosi nutrimento in ogni terra che attraversano, e la loro placida ma solerte stirpe non avrà mai fine.
Non ci furono rintocchi d’orologio, erano tutti fermi da tempo, né un calendario che segnava il giorno particolare della ricorrenza, ormai si seguiva soltanto la scansione giorno notte in successione indistinta, né le stagioni avevano date precise d’inizio, se ne sentiva l’arrivo dal calore, dal freddo, dagli odori e dai colori del cielo e della natura. Il padre però seppe che quel giorno era il compleanno di suo figlio, non sappiamo come, ma ne fu certo, svegliandosi quel mattino nella luce tersa di un autunno mite, profumato di malinconie sfumate che coloravano di rossiccio e ocra il bosco davanti al palazzo dove vivevano. Uno dei pochi ancora abitabile, piuttosto deteriorato dalla mancanza di manutenzione per più di cinquant’anni e dal passaggio d’inquilini provvisori che avevano vandalizzato come parassiti ogni spazio, ogni cosa, delle abitazioni in cui erano vissuti temporaneamente senza preoccuparsi di chi sarebbe venuto ad abitare là dopo di loro. Tutto sommato però, l’edificio s’era conservato piuttosto bene e con qualche aggiustamento erano riusciti a ripristinare un appartamento più che confortevole, visti i tempi, e s’erano fermati, nella speranza di poter fondare la loro vita di fuggiaschi in un luogo sicuro.
Quella mattina, svegliandosi, aveva sentito che la luce, invadendo la stanza quasi come fosse un onda di calore benevolo, gli dicesse che quel giorno sarebbe stato speciale e lui avrebbe dovuto renderlo unico per suo figlio. Lo guardò, ancora addormentato, con il corpo rilassato in una posizione contorta che solo i ragazzini possono assumere nel sonno, la testa reclinata sul cuscino sdrucito ma accogliente, sul viso quell’espressione pura dei fanciulli che sognano, sulle labbra un sorriso disarmante, di fiducia e speranza, sereno e sicuro nel suo nido di riposo e fantasie sognate.
Lo guardò e nel petto gli crebbe tutta l’enormità d’esistere per lui, con lui, oltre sé stesso. Trattenne un singhiozzo di commozione, sorrise e accarezzò suo figlio, sui capelli e su una guancia. Il figlio aprì gli occhi e lo guardò, senza dire nulla, sospeso tra il sonno e la veglia, stirò braccia e gambe in un modo buffo e infine disse: «Ciao, papà.»
Il padre ascoltò quel saluto, come fosse un lungo discorso, la dichiarazione di una fiducia illimitata, che risuonò dentro di lui con forza contagiosa. «Ciao, figlio.», gli rispose. E il ragazzo sentì quella forza ritornare a lui, dalla voce, dagli occhi e dal sorriso di suo padre, si drizzò a sedere e lo abbracciò.
Camminavano sulla strada dall’asfalto sbreccato, dal quale spuntavano piante selvatiche, persino cespugli; il ragazzo stringeva la mano di suo padre, con fiducia ma anche un poco di timore, perché non s’erano mai allontanati così tanto, mai s’erano avvicinati tanto al bosco. Ma la stretta forte di suo padre lo rassicurava. Era una giornata tersa e calda, quasi primaverile sebbene fosse già autunno inoltrato.
«Papà, dove stiamo andando?»
«Andiamo a festeggiare!»
«Cosa?»
«Il tuo compleanno, figlio mio, il tuo compleanno!»
«Il mio compleanno?»
«Sì, vedrai. Ho una sorpresa per te.»
«Ma una volta mi hai detto che ero nato in primavera…»
«Infatti, è così, vedi? Guarda che sole, che luce, che calore, non ti sembra che sia primavera?»
«Sembra, ma…»
«Ma, ma, ma! Non essere pignolo, figlio. Il tempo è un’illusione, un trucco degli uomini per misurare il tempo e i loro limiti. La natura ci smentisce sempre, infatti oggi, anche se saremmo in autunno, è primavera. E sai perché?»
«No, perché?»
«Perché qualcuno lassù ha deciso che oggi è il tuo compleanno, e bisogna festeggiarti, figlio, sei grande ormai ed è arrivato il momento che io ti regali qualcosa di molto bello, molto importante, qualcosa che ti stupirà e, se vorrai, potrà cambiare la tua vita.»
«Papà, stiamo andando verso il bosco, è pericoloso. Me l’hai sempre detto tu che non dovevamo avvicinarci, ma adesso…»
«Adesso è arrivato il momento di entrarci e attraversarlo. Sei grande e insieme possiamo farlo. Ogni giovane deve attraversare il suo bosco, vincere le sue paure e uscirne più forte, pronto ad affrontare la sua vita da adulto.»
Il figlio rise.
«Ma pa’, io non sono mica adulto ancora!»
«Che ridi, scemotto, sei più grande di quanto pensi!»
«Sono solo a tre mani da cinque dita, mi avevi detto che per essere grande ce ne vogliono quattro!»
«Quello è il punto d’arrivo, ma stai già andando verso quello che poi sarai, c’è già un adulto dentro di te, che deve capire come venir fuori ed essere quel che è davvero.»
«Oggi sei strano, papà!»
«E non sei contento?»
«Che sei strano?»
«Eh.»
«Sei forte quando sei strano, mi piace.»
«Se ti piace, forse forse sei un po’ strano anche tu!»
Risero insieme, si fecero un po’ di smorfie scherzose e proseguirono verso il bosco che li aspettava, oscuro e luminoso come una cattedrale gotica.
Camminavano con cautela, tastando spesso il terreno o evitando alberi caduti o frammenti di rovine, perché i sentieri d’una volta erano stati cancellati dalla vegetazione che era avanzata rigogliosa e aveva invaso tutto. Scimmie e pappagalli spiavano quei due esseri mai visti con curiosità e circospezione. Ogni tanto tra le cime di qualche albero intravedevano il collo e la testa di qualche giraffa che mangiava le foglie, senza far caso a loro due. Il laghetto pullulava di vita: piccoli ippopotami nani sguazzavano placidamente, antilopi, bufali e cervi s’abbeveravano, tre elefanti bevevano e si spruzzavano acqua con le proboscidi, alcune iene e qualche ghepardo si aggiravano circospetti, in cielo volteggiavano falchi, aironi e aquile che ogni tanto si tuffavano in picchiata per ghermire un pesce o qualche piccolo roditore che nuotava ignaro del pericolo.
Il ragazzo sgranava gli occhi, affascinato da tutta la vita brulicante di quegli esseri fantastici che non aveva mai visto davvero.
«Papà, è come in quel libro che ho visto quando ero più piccolo, l’Atlante degli Animali, esistono, esistono davvero!»
«Certo che esistono. Anche se non tutti dovrebbero stare qui.»
«Sono bellissimi. Perché non dovrebbero?»
«Vengono da posti molto lontani, erano stati catturati e portati qui. In un posto che si chiamava zoo, o meglio bioparco come lo chiamavano per pulirsi la coscienza.»
«Ma chi?»
«Gli esseri umani, come me e te.»
«Perché li portavano qui?»
«Per poterli vedere. Si pagava un biglietto e si potevano vedere animali di tutti i continenti.»
«Che bello!»
«Per loro mica tanto, li tenevano chiusi dentro gabbie, recinti, fossati invalicabili, erano prigionieri insomma. S’intristivano, a volte così tanto da morirne.»
«Ma adesso sono liberi!»
«Sì. Dobbiamo stare attenti però. Sono animali selvatici, alcuni predatori che cacciano per mangiare.»
«Potrebbero mangiarci?»
«Potrebbero. Speriamo di no. Stammi vicino, camminiamo con cautela e ricordati, in caso di pericolo non correre mai, per loro è il segnale che la caccia è iniziata.»
«Va bene, pa’, ma dove stiamo andando?»
«In un posto bellissimo.»
«Come quello?»
Il ragazzo indicò una palazzina diroccata, semi nascosta dalla vegetazione. Molte mura erano semi cadute, in molte finestre gli alberi avevano insinuato i rami che entravano e seguendo cirvonvoluzioni contorte rispuntavano da brecce della pietra o da altre finestre o addirittura da squarci sul tetto di tegole in rovina. Si avvicinarono e seguendo il perimetro delle mura si ritrovarono da un lato esteso, interamente crollato, aperto e visibile. Tra pietre e calcinacci, travi spezzate e frammenti di vetro, spiccavano figure bianchissime che sembravano apparizioni di un sogno antichissimo.
«Guarda papà, ci sono delle persone immobili, tutte bianche! Quella signora là, tutta sdraiata, sembra che ci stia guardando! Chi è?»
Il padre rise e arruffò con la mano i capelli del figlio.
«Non sono persone, sono statue di marmo, le scolpivano gli artisti per ricordare le persone importanti o per rappresentare leggende antiche. Quella signora, come la chiami tu, è Paolina Borghese, la sorella di Napoleone Bonaparte, un grande imperatore. Lei aveva sposato un principe ed era venuta a vivere qua, era ricca e potente, così uno scultore famoso, Antonio Canova, scolpì quella statua bellissima.»
«Però è tutto in rovina, tanto ricca forse non era.»
«Ricchissima, cioè lo era suo marito, il principe Camillo Borghese, era tutto suo questo bosco.»
«Ma che se ne faceva di un bosco?»
«Secoli fa non era un bosco, era una villa della famiglia Borghese infatti, così si chiamava, poi era diventata un parco aperto a tutti, la galleria delle statue e lo zoo, gli altri edifici, potevano essere visitati da tutti.»
«Che figata pa’! Questa passeggiata è il più bel regalo della mia vita!»
«Eh, vedrai, la cosa più bella deve ancora venire, stiamo andando là, vedrai…»
Il ragazzo agitò la mano in aria per salutare la signora della statua e seguitarono a camminare.
Sembrava che li stesse aspettando. Quando lo videro si fermarono. Li guardava fisso, col capo ben eretto, il corpo fiero, la criniera folta.
«Stai fermo, non ti muovere, non scappare, non correre.», disse sottovoce il padre.
«È pericoloso, vero pa’?»
«Sì, è un leone, è un predatore, ma forse ha già mangiato, forse è vecchio e stanco.»
«Speriamo che abbia mangiato, tanto vecchio non mi pare, pa’.»
Quasi li avesse sentiti dubitare della sua forza, il leone scosse il capo ed emise un ruggito. Il padre strinse forte la mano al ragazzo. Non si mossero. Ci fu un silenzio che sembrò loro lunghissimo. Anche gli uccelli e le scimmie sugli alberi si erano zittiti. Poi il leone si voltò e prese camminare. Padre e figlio rimasero fermi. Il leone si fermò e voltò la testa verso di loro, la scrollò muovendo la criniera e riprese ad andare.
«Sembra voglia che lo seguiamo…», disse il ragazzo, che nonostante la paura era affascinato da quell’animale maestoso.
«Chissà, forse…», rispose il padre «Sta andando nella direzione in cui dovremmo andare noi. Come se c’avesse aspettato.»
«Che facciamo papà, andiamo anche noi?»
E gli andarono dietro.
Dopo un po’ che camminavano, videro l’edificio. Il leone si volse ancora una volta a guardarli, poi si mise a correre e in poche zampate raggiunse la costruzione e attraversando lo spazio aperto di un muro crollato, entrò e scomparve alla loro vista.
«Sembra una torta tutta rotta. Che cos’è, papà?»
«Era un teatro.»
«Un teatro… che vuol dire teatro, pa’?»
«Entriamo, ti faccio vedere.»
«No, no, ho paura, c’è il leone là dentro!»
«Non avere paura, se avesse voluto mangiarci, l’avrebbe già fatto. Entriamo, su.»
«Sei sicuro, pa’?»
«Sì, sono sicuro. Andiamo.», mentì il padre, ed entrarono.
«Puoi toglierti la mascherina, figlio. Guarda!»
Se le tolsero e respirarono a pieni polmoni, con un sollievo liberatorio.
Le panche di legno erano ormai semidistrutte dalle intemperie o avvolte da cespugli ed ebacce, le gallerie sembravano balconi carichi di rampicanti, qualcuno secco, molti rigogliosi, alcuni persino fioriti di bouganville, magenta, rosa, arancione, rosso. Il palcoscenico sembrava un trionfo barocco, la scenografia di un dramma pastorale, con le colonne ricoperte di foglie e rami intrecciati, il pavimento era ricoperto di muschio e il balcone interno ancora coperto da un drappo dorato brillava spiccando agli occhi del padre e del figlio che osservavano quella meraviglia, quasi come un sogno, antico e perduto per l’uomo, nuovissimo ed entusiasmante per il ragazzo.
«Caspita, pa’, è pazzesco ‘sto posto!»
«Ti piace?»
«È bellissimo, sembra di stare dentro una storia, come una di quelle che mi racconti tu.»
«Per questo ho voluto portarti qui, questo è il posto dove nascevano e si rappresentavano tutte le storie del mondo.»
«Tutte?»
«Tutte. Beh, non tutte insieme, una alla volta… moltissime.»
«Come quelle che mi hai raccontato tu? La storia del principe indeciso Amleto, quella di Antigone testarda, le avventure del Dottor Faust che non voleva invecchiare e la mia preferita, quella di Peter Pan!»
«Tutte le storie che ti ho raccontato e molte altre, tantissime.»
«Accipicchia! E come facevano?»
«Qualcuno scriveva le storie, gli attori le imparavano a memoria, si vestivano come i personaggi e recitavano davanti al pubblico che veniva qua e si sedeva su queste panche o su quelle nelle gallerie. Si stava tutti in silenzio, mentre la rappresentazione prendeva vita sul palco come una magia che accomunava tutti, si piangeva e si rideva insieme, ci si meravigliava insieme, ci si indignava insieme, e il tempo si sospendeva, diventava un altro, ci credevi, volevi crederci ed era un’esperienza straordinaria.»
«Pa’ ma tu l’hai visto o stai immaginando tutto come al solito, con tutte quelle cose che t’inventi per me? Sono grande ora, sai? Lo hai detto anche tu.»
«No, non l’ho visto veramente. Sono venuto qua con mio padre quando avevo la tua età e lui mi ha mostrato questo posto, mi ha raccontato le stesse cose che sto dicendo a te.»
«E se anche il nonno si fosse inventato tutto?»
«Non credo, lui l’aveva visto davvero il teatro, quando era aperto, quando era pieno di vita, di persone, di emozioni pulsanti!»
«Era vecchio il nonno…»
«Adesso sarebbe vecchissimo, ma allora non lo era e prima che nascessi io era stato giovane, sai? Era un attore! Aveva recitato la parte di tanti personaggi e conosceva una quantità enorme di storie, tutte quelle che ti ho raccontato me le ha insegnate lui, ma ne sapeva molte di più, era straordinario starlo ad ascoltare.»
«Anche tu non sei male, papà. Mi piacciono le tue storie e come me le racconti. Sei buffo quando mi vuoi fare ridere, quando fai il cattivo mi fai davvero paura e quando sei qualcuno che soffre mi fai piangere. Secondo me sei bravo come il nonno.»
«Ma non ho mai vissuto tutto questo con gli altri, con il pubblico, tante persone che respirano, ridono o piangono insieme a te.»
«E io? Sono io il tuo pubblico.»
«È vero, hai ragione, ma non è la stessa cosa.»
«Tutte le panche qui e nelle gallerie, piene di persone?»
«Eh, sì. Tutto pieno di gente.»
«Ma non avevano paura?»
«No figlio, non avevano paura. Poi c’è stata la pandemia, il virus, i contagi… solo allora hanno comiciato ad avere paura. Ma qui, stranamente, le persone si sentivano al sicuro.»
«Dev’essere stato bellissimo.»
«Lo era. Ma poi chiusero tutti i teatri. Le persone rimasero senza sogni, senza fantasia, sole con le loro paure, diffidenti, isolate.»
«Come adesso?»
«Come adesso.»
«Grazie papà.»
«Di cosa?»
«D’avermi portato qui, mi sento dentro una magia.»
«Lo avevo promesso a tuo nonno e tu dovrai promettermi che farai lo stesso con tuo figlio quando sarai grande e una donna ti sceglierà per essere padre.»
«Te lo prometto, papà!», esclamò il figlio, abbracciando il padre con trasporto. Rimasero fermi, stretti l’uno all’altro, in silenzio. Quando si sciolsero dall’abbraccio, il ragazzo, con gli occhi lucidi ma un gran sorriso sul volto, disse:
«Non potrò farlo se non vedo come si fa, papà! Sali là sopra e recita per me. Io mi siedo qui e sarò il tuo pubblico, uno solo, ma tu immaginati di vedermi seduto su tutte le panche, qui sotto, là sopra, tutto intorno! Dai, papà!»
Il padre rise, gli prese la testa tra le mani e lo baciò.
«Va bene, figlio, cosa vuoi che reciti, quale storia, quale personaggio preferisci?»
Disse, mentre saliva sul palcoscenico e si piazzava nel mezzo della scena, sentendosi invadere da un entusiamo e una forza che lo sopraffacevano.
«Non lo so, pa’! È troppo difficile scegliere, quello che vuoi tu, ricorda, inventa, come hai sempre fatto a casa, ma qui di più, di più!»
«Qui è tutto di più.», pensò il padre ed emise un gran sospiro di gratitudine, per suo figlio, per suo padre, per tutto quello che s’era perduto ma ancora viveva in lui e avrebbe continuato a vivere nel suo ragazzo.
Dal balcone interno al palcoscenico, richiamato dalle voci dei due umani, s’affacciò il leone, ma non era solo, dopo di lui spuntarono una leonessa e tre cuccioli curiosi. Restarono là, silenziosi, come se attendessero anche loro qualche straordinario avvenimento.
“Dove finisce tutto l’amore sprecato, tradito, maltrattato o semplicemente lasciato indietro come un bagaglio dimenticato sul binario?”
Iride e le sue sorelle, divinità dell’Olimpo ellenico, sorvolano il cielo della Città eterna e sono testimoni e narratrici delle vicende di questo singolare romanzo. Un bambino del sud di nome Tommi riaffiora nella vita e nella mente di Tommaso, quarantenne medico e bioingegnere di successo. Una bambina di nome Leyla, figlia di due grandi medici, lotta contro la cecità; viene salvata, ma fugge dalla sua storia difficile, viaggia e dimentica sé stessa. Diventerà la giovane sconosciuta che Tommaso incontrerà casualmente per strada; la porterà con sé, la laverà, l’amerà, le darà un nuovo nome, Moira. Il suo destino. Sarà un rapporto potente, lacerante, perverso anche, ma ineluttabile per entrambi.
In uscita il 28 Gennaio 2021, su tutti i bookstore on line e nelle librerie, libro e ebook.
Ripetersi come un mantra: “Non sono un poeta”, così come i matti ripetono continuamente: “Non sono matto.” Vedere sfilare davanti agli occhi la galleria dei volti di tutti i poeti che persero la ragione per eccesso di vita, di visioni e pensieri acuminati e taglienti come bisturi in mano a un bambino.
Ripetersi come un mantra: “Voglio vivere”, per vincere l’attrazione mortale alla dissolvenza, allo sparire come atto estremo di presenza, antidoto alla insostenibile mediocrità che cavalca il mondo, per esorcizzare quella tentazione amica di molti poeti amati, che si lanciarono dall’altra parte, con gesti soavi o cruenti.
Restare in silenzio, infine. Immergersi nella straordinaria sensazione dell’essere e del non essere insieme, qui, adesso, altrove, sempre. Senz’accorgersene, lacrimare, sorridere.
Sentire il respiro come un abbraccio interminabile, tremare, accogliersi, essere pianta, essere nuvola. Essere poesia.
Faceva un tempo da schifo, un freddo che spaccava le ossa, vento tagliente, pioggia a gocce chiodate e un cielo scuro come l’ansia. I mobili Ikea comprati vent’anni prima si sgretolavano sotto la morsa del gelo che entrava dagli spifferi grandi come canali degli infissi scalcagnati delle finestre, due delle quali al posto del vetro c’avevano due tavole di compensato attaccate col silicone, ormai semi scollato. Il televisore trasmetteva ininterrottamente un effetto neve frusciante, il decoder non ce l’aveva, un apparecchio nuovo manco a parlarne, tanto valeva spegnerlo. Ma sua suocera si ostinava ad accenderlo e a passarci le giornate davanti, con lo sguardo fisso e un sorriso ebete, da rincoglionita qual’era. Per rispetto a sua moglie la lasciava fare. Tanto tra un po’ avrebbero tagliato la corrente elettrica e sua suocera avrebbe fissato lo schermo spento. I bambini, per così dire visto che erano adolescenti animaleschi, s’accapigliavano, come sempre, dandosele selvaggiamente, ma non litigavano, erano esuberanti, così diceva sua moglie, sfogavano e basta, era il loro modo di giocare. Almeno così s’accaldano e non sentono troppo ‘sto freddo pazzesco, pensò. Sua moglie rimestava il pentolone grande, nel quale bollivano da ore due carcasse di pollo. Comprate al supermercato. Il marketing s’era adattato alla crisi. Incellofanate, su vassoietti di polistirolo bianco fulgido, sotto la luce del bancone macelleria, erano apparse queste meraviglie, a sessanta centesimi al chilo, ti portavi a casa un pollo, senza petto e senza cosce. Ma almeno ti sembrava di potertelo permettere, un pollo. Visto che erano in cinque a mangiare, per le feste sua moglie ne aveva comprati due. Avevano il pregio che a forza di rosicchiarli e succhiare le ossa, ti stancavi e ti passava la fame. In più c’era il brodo, che era sempre meglio di quello dei dadi, che tra l’altro erano più costosi. L’odore era buono, faceva venire l’acquolina in bocca, ma questo era uno svantaggio, perché quando tutto arrivava in tavola, il niente che era straziava l’anima e il corpo. Ciò nonostante sua moglie canticchiava. Che cazzo c’hai da cantare, pensava Natale, siamo nella merda, mangeremo quattro ossa e una tazza di brodo; tua madre è rimbecillita davanti al televisore scassato e ogni tanto chiama tuo padre, che è morto da vent’anni, e lo rimprovera per qualche minchiata che avrà fatto quarantanni prima e che è una delle poche cose che ormai si ricorda; i tuoi figli, i nostri figli, sono due idioti violenti che a scuola vanno malissimo fin dall’asilo nido e il buongiorno si vede dal mattino; tu sei patetica con quella camicia rosa coi volant, attillata sopra la ciccia da quarantenne esausta, quella pantacollant ti fa un culo a mappamondo che a te ti fa sentire la cugina di Jennifer Lopez ma tanto io lo so che quando te la togli la forza di gravità te lo schianta, e io sono un fallito disoccupato, a cinquantanni passati come una schiacciasassi che m’ha ridotto a un vecchio inacidito dentro e fuori, c’è la crisi, che ci vuoi fare, passerà, sta già passando: si come no, sopra di me sta passando, come un tritacarne e che cazzo c’avrai da cantare, eh? Boh.
Gli girano i coglioni a Natale e per non litigare con sua moglie, per non ammazzare sua suocera e buttarla nella pentola a tocchi insieme alle carcasse di pollo, per non legare col filo spinato quei figli che a tredici e quattordici anni hanno testosterone e idiozia pompati dappertutto, acchiappa la giacca a vento ed esce. Torno più tardi. Copriti bene che fa freddo, gli fa la moglie. Sì.
Il freddo, così di colpo, come una tavolata sulla faccia, appena fuori, lo fa barcollare. Ma è troppo incazzato e cammina a passi lunghi e saltellanti, una specie di corsa da struzzo nella galleria del vento, un due tre, un due tre, un due tre… Sbuffa anche, sbuffa e smadonna, sbuffa e smadonna. Birubìp. Birubìp. E si ferma. Un cazzone col suv. Ha messo l’antifurto, col telecomando, ma avrà schiacciato due volte oppure con ‘sto freddo l’impianto elettrico dell’auto è andato in pappa, fatto sta che il tipo si sta allontanando, ma l’auto l’ha chiusa e riaperta, senza accorgersene. Natale lo vede sparire dentro a un portone, carico di pacchi infiocchettati e buste griffate. Stronzo, pensa. Gli fa rabbia, gli fa invidia. Però se lo ricorda che anche lui fino a qualche anno prima, tornava a casa con i pacchetti regalo, senza Suv e i regalini erano modesti, ma tutto aveva una sua dignità, Natale aveva dignità, la sua vita, piccola ma dignitosa.
S’avvicina all’auto. Sbircia intorno. Non c’è nessuno. Apre la portiera ed entra. Si siede al posto di guida e poggia le mani sul volante. Quant’è alta ‘sta macchina, paiono camioncini ‘sti Suv. Esagerati. Però è figo starci sopra. Ti senti forte. Potente. ‘Na stronzata, ma fa bene. A uno come a me fa bene davvero, pensa. Un po’. Un po’ poco, ma adesso mi pare tanto. Che fregatura, pure ‘sto Suv. Nel calore dell’abitacolo, sospira, guarda avanti a sé il parabrezza appannato. Si addormenta. Senza sogni, come se scivolasse dentro un tubo nero e caldo. Di botto una musichetta esasperata invade il vano dell’auto, Natale sobbalza, si sveglia, si rende conto che il tipo ha dimenticato il cellulare, apre la portiera e schizza fuori. Corre via. Ma fa in tempo a incrociare l’uomo che sta andando a recuperare il telefonino. Giusto in tempo, pensa, mi mettevo nei guai ancora di più, e tanto non la rubavo, non so nemmeno come si fa a farla partire senza chiavi, e poi adesso con ‘sti gps, pure se fai cento chilometri ti rintracciano. Soprattutto non sono un ladro, ancora no. Sono onesto. Un coglione fottuto, ma onesto, io. Fino alla fine. Non serve a niente, se sto come sto, ma sono così, colpa di mia madre, di mio padre, di tutti quei buoni principi che mi stanno dentro e addosso e non si scollano nemmeno se sono disperato, come adesso.
Le campane elettriche di una chiesa vicina suonano perdendo colpi.
Natale ricomincia a correre stile struzzo, aggiungendo dei movimenti di braccia e colpi di mani sulle cosce per non farle gelare. E corre e salta. Non se ne accorge subito del cane che lo insegue. Una specie di cane bastardo con un ricordo antico di cane lupo nella testa e nella coda, con un corpo a botte, di colore smerdato, che testimonia generazioni di meticciato trombante. Poi il cane lo supera, in un guizzo di esaltazione canina, corre un poco avanti, si ferma, salta, gli va incontro, salta ancora, riparte avanti. Per un attimo Natale si spaventa, pensa che il cane voglia aggredirlo, ma subito dopo capisce che quel cazzone vuole giocare. Perciò continua a correre, a saltare, a battere le mani, agitare le braccia, col cane che lo imita, corre, salta e invece di muovere le braccia, scuote la testa e agita le orecchie. Ogni tanto incrociano un Babbo Natale di plastica gonfiabile e Natale, senza smettere di correre gli molla un calcio o uno schiaffone in faccia.
Si fermano davanti a un cassonetto che sembra non puzzare, tanto è il freddo. Natale si piega e respira affannato. Gli duole il fianco. Suda persino. Il cane si ferma, gironzola, sbuffa, sniffa il cassonetto, alza la zampa e gli schizza su una pisciatina. Natale continua il gioco d’imitazione tra lui e il bastardone, piscia anche lui sul cassonetto. Ahhh. Ci voleva. Sente di nuovo il freddo. Una specie di manina gelida sul collo. E si volta di scatto. Nessuno. La strada è deserta. La luce giallastra dei lampioni è ovattata da un’infinità di macchioline bianche. Nevica. A Natale nevica. Quando cazzo mai ha nevicato qui? Ma nevica. Fa un freddo bestiale e nevica. Bello. Guarda il cane che s’è seduto e con la zampa si da colpetti sulle orecchie, a scacciare i fiocchi che lo colpiscono lievi e freddi. È neve, dice Natale al cane. È solo neve. Non avere paura. È bella da vedere, no? Ti piace?
E il cane gli risponde. Alza il muso e mugola, mugola forte, mugola tanto fino a ululare. Ulula a lungo. E anche Natale ulula. Ulula, ulula. Uuuuuuhhhhhh. Uuuuuuuuuuuhhhhh. Da soli, nella notte, come un canto lungo e modulato, soli e insieme, ululano, cantano come bestie, cantano nella neve, bianca come lo sconcerto che li attraversa, cantano, mentre Gesù sta nascendo.
Gloria a Diu pir li cosi ammiscàti, pir li celi pizzàti comu li vacchi macchiati; pir li puntiddi rosa spruzzati su li pisci di ciumi; pir li castagni abbuccati di la rama addumati di russu e l’ali cangianti di la caccarazza; li campagni aqquadrittati e spartùti, frummentu, avina e terra arrascàta e tutti li travàgghi, ccu machinari, ferru e cunsistenza. Tutti li cosi opposti, dispari, leggî, maravigghiusi; tuttu chiddu ca cància, chinu di macchi (cu sapi comu?) di lu lestu a lu lentu; lu duci e l’àvuru, chiddu ch’allùcia o scura. Iddu ci duna biddizza e iddu nun cància; grazìi dicitici, Lodi all’eternu.
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Testo originale:
Pied Beauty Glory be to God for dappled things – for skies as couple-coloured as a brindled cow; for rose-moles all in stipple upon trout that swim; fresh-firecoal chestnut-falls; finches’ wings; landscapes plated and pieced – fold, fallow and plough; and all trades, their gear and tackle and trim. All things counter, original, spare, strange; whatever is fickle, freckled (who knows how?) with swift, slow; sweet, sour; adazzle, dim; He fathers-forth whose beauty is past change: praise Him.
Sono sicuro ma sicuro sicuro che sicuramente gli extraterrestri esistano. Non ho prove nemmeno una. Soltanto un vago presentimento d’essere spiato quando sono solo.
Non li ho mai visti né mai li vedrò e onestamente non ci tengo molto. Non me li immagino nemmeno un po’. Non credo siano verdi o blu o blatte giganti. Non me ne frega niente a dir la verità. Non è nemmeno un pensiero ricorrente.
È che i terrestri lasciano molto a desiderare e ho deciso di dedicarmi a qualcos’altro.
Tanto per non impazzire. O forse proprio per impazzire ma a cuor leggero.
Di una cosa infatti sono sicuro gli extraterrestri non sono simili a noi e questo mi rincuora grandemente.
Mentre aspetto che arrivi un’astronave costruisco una pista d’atterraggio che m’attraversa la testa in diagonale.
Sono sicuro ma sicuro sicuro che sicuramente gli extraterrestri esistano.
«Le avventure e i ricordi si sovrappongono, arricchiscono consapevolezze e rimorsi, ripercorrono le tappe del pentimento: ci sono i piedi perfetti di Calipso, la bianca pelle di Nausicaa e Circe, la spada del mio dubbio.»
«… in questo ritorno a Itaca che Randazzo mette in scena non c’è rispecchiamento tra Odisseo e Penelope. Il monologo di Penelope denuncia la devastazione amorosa che separa marito e moglie. Le due esperienze amorose solo apparentemente esprimono languori e nostalgie, mentre la narrazione dei due io poetanti ci restituisce, in una inconsapevole dichiarazione di perfetta simmetria, l’irriducibilità che sempre li ha gravati. Così come il balbettante racconto dello stupro di Aretusa è metafora dell’indicibilità della violenza, dire l’amore, a Penelope e a Odisseo, non basta per colmare l’estrema lontananza fisica e mentale degli amanti.”
– Incontrare qualcuno che si scansa e pensare: “Ti conosco mascherina”.
– Dire “Buongiorno” come se sparassi.
– Suonare in contemporanea Bella Ciao e il tema Jedi di Star Wars.
– Fare la lucertola al sole mentre aspetto in fila per entrare al Supermercato.
– Andare in farmacia per comprare una crema per le bolle che mi sono spuntate stando al sole.
– Impastare pane, torte e focacce come se fossi posseduto dall’anima di Nonna Papera.
– Accogliere i corrieri che mi portano le cose comprate online, come se fossero venuti a salvarmi.
– Mandarli al diavolo mentre se ne vanno dopo avermi trattato come un appestato da evitare. Guardarli come un parente che se ne va, quando invece sono stati gentili.
– Vestirmi a mezzobusto tanto in videochat non si vede sotto.
– Spulciare gli annunci immobiliari di case col giardino.
– Bere acqua come se fosse champagne.
– Dimenticare dove ho parcheggiato l’auto, ma chi se ne frega.
– Ingurgitare vitamina C con la voluttà di una canna.
C’è un silenzio strano. Non è un vero silenzio, perché in sottofondo c’è una sorta di rumore bianco, un frusciare sordo, un ronzio sommesso, è quasi assenza di suono, quasi. Uno stato di quiete inquieta, la sentiamo, ma facciamo finta di niente. Anzi, ci agitiamo per non sentire.
Non è facile ascoltarsi, non è facile rimanere soli con se stessi, specchiarsi in un pensiero che rifletta noi in qualcosa di immensamente grande, vuoto, da riempire.
Siamo precipitati in una grande partitura, apparentemente lineare ma complessa, piena di simboli oscuri, sequenze numeriche imperscrutabili. Siamo dentro una pagina dell’Arte della Fuga di Bach o di uno degli ultimi Quartetti di Beethoven. Ogni nota, ogni misura, ogni suono, ha un unico anelito, una disperata volontà, tornare al silenzio, tornare a quella sospensione divina dell’esistenza racchiusa in un respiro trattenuto, essere un punto sospeso tra la realtà del movimento inconsulto e quella del pensiero che afferma l’essere.
La paura, col suo chiassoso menefreghismo, la perfetta vigliaccheria dell’alibi per sé e dell’accusa per gli altri, batte ritmi sconclusionati, rumbe assordanti che offuscano tutto. Si fugge da noi stessi, perché stare con noi stessi è insostenibile, così ci pare, così lo sentiamo. Eppure noi da soli, siamo di più, se da noi stessi, in quel silenzio, sappiamo espanderci e sentire tutto ciò che siamo, tutto ciò che è altro da noi, tutto il noi che è in uno, se solo tentassimo di dire a noi stessi cose semplici eppure enormemente importanti, se solo sapessimo star seduti e guardare un muro, un quadro, un oggetto, un cielo al di là della finestra come se fosse quello il centro del mondo, la radice dell’esistenza, il pesantissimo grano di polvere dell’impermanenza. Sentiremmo insostenibile l’ipocrisia e la cecità di fronte al dolore degli altri, sentiremmo gratitudine per l’essere salvi, sentiremmo la responsabilità d’essere per gli altri.
In questo tempo di miserie e miserabili, di frastuono ed egoismo dissennato, una piccola, quasi invisibile particella di morte, ci da la straordinaria possibilità di stare con noi stessi, nel mondo, per essere migliori di quella turba incosciente, irrazionale e spietata che siamo stati finora.
Dobbiamo fermarci, per ripartire nella giusta direzione.
C’è un silenzio che potrà meravigliarci, se solo ce lo permetteremo.