La rosa dell'Escorial in tralice sul muro nasce appassita, subito intrecciata alla morte, quasi vergognosa di vivere, come se sentisse ancora il fiato severo di Felipe II, la morbosa libidine scura della consunzione dei corpi, la muffa della pietra nera, il battito pressante della fine. La rosa dell'Escorial sospira mentre il sole debole la sfiora, e si colora di pallida tristezza, sbiancata fredda guancia d'Infanta destinata al cenere, senza illusione di futuro, certa soltanto della fine. Dagli armadi nella cattedrale, dagli stipi devozionali del re, echeggia sinistro un tic tac di ossa e reliquie irrequiete, avide, perentorie, assillanti, e la rosa trema, la rosa dell'Escorial che muore di rassegnata nostalgia per una vita che là non può presumere per un solo istante la leggerezza che solo l'aria promise, ma fu tradita dal cilicio rasposo, freddo, di volontà di fede contro ogni cosa che vive, ed è colpa soltanto da espiare. La rosa dell'Escorial è una bambina mai nata posata come una lacrima davanti agli occhi, opaca e muta, spina di Cristo, petali di martirio, sola su un eterno calvario. Nessuno la guarda, ognuno s'affretta temendo il contagio, ognuno fugge verso la vita, lontano da lei, memento mori insopportabile e crudele, rosa corrosa dell'Escorial.
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